Un percorso psicoterapico è un mezzo attraverso cui la persona può essere aiutata a capire e a comprendere sé stessa riuscendo, come fine ultimo, ad impostare un cambiamento positivo che le permetta di raggiungere la stabilità e il benessere che sta cercando.
La malattia è una mancanza di libertà, di possibilità, la “cura” non avviene cambiando le credenze ma facendo apparire nuove possibilità di azione.
Non esiste un momento giusto o sbagliato per iniziare un percorso terapeutico, né una motivazione più giusta di un’altra. Esiste ancora molto stigma sull’argomento: è tutt’ora molto diffusa l’idea che dallo psicologo ci debbano andare solo “i matti”, o i “deboli”. Sfatiamo questa falsa e arcaica concezione. Tutto ciò che ci crea una sofferenza è meritevole di aiuto e attenzione. Se hai qualche dubbio su ciò che ti sta accadendo, se sei bloccato per una qualsiasi ragione o se non conosci la ragione per la quale ti sento bloccato, non esitare a chiedere aiuto ad un esperto. Chiedere aiuto è un gesto di forza e consapevolezza.
Lo strumento primario della psicoterapia è il colloquio. Attraverso di esso l’esperienza del paziente chiede di essere detta. Ma ciò che viene detto coincide con l’esperienza? Ogni volta che raccontiamo la nostra esperienza vi è una sorta di distanziamento da essa: non la stiamo vivendo in prima persona, la stiamo raccontando, o meglio “traducendo” attraverso il linguaggio.
Il rapporto tra esperienza e racconto genera identità: ci raccontiamo in modo tale da mantenere coerente l’immagine che abbiamo di noi stessi. Quando però in questo racconto si crea un’incoerenza ecco che si genera un’incomprensione che si trasforma, a sua volta, in sofferenza. La psicopatologia, infatti, nasce nel momento in cui si viene a creare una “frattura identitaria” nel nostro racconto: ovvero la nostra esperienza non è coerente o non può essere conciliata con l’immagine che abbiamo di noi stessi, in altre parole non può essere inserita nel racconto che facciamo di noi stessi perché non ci si riconosce più con se stessi o non si sta bene con la propria esperienza.
Ci si dovrebbe sempre sentire autori e agenti della nostra esperienza, appropriarsi di quello che ci succede, sentirlo come nostro e riconoscerci nell’esperienza, sentirsi protagonista di essa e poterla integrare nella propria storia di vita, non cercare di cambiarle significato.
Ogni volta che facciamo un’esperienza la configuriamo costantemente sia alla luce del nostro passato, sia degli orizzonti d’attesa (il “che ne sarà di me”), è così che diamo continuità al senso di sé.
L’intervento dello psicoterapeuta quindi, è volto a chiarificare al paziente quei momenti esistenziali (turning points) che lo hanno “bloccato” e, insieme a lui, vagliare percorribili ed appetibili possibilità d’azione presenti.
Un ricorrente pattern che rilevo nei pazienti, anch’esso tipico della società post moderna, è quello che definisco il “dover essere felici”. E’ assai frequente, infatti, che tristezza e malinconia non vengano per nulla accettate e siano vissute come malattia da scacciare.
Il costante evitamento di queste emozioni “negative”, le quali però sono legate all’esistenza e quindi inevitabili, favorisce lo sviluppo di senso di inadeguatezza, mancata accettazione di Sè e scarsa motivazione. Il lavoro dello psicoterapeuta, è spesso volto anche a favorire nell’individuo l’accettazione delle proprie caratteristiche e di tutte le emozioni che vive, indipendentemente dalla loro valenza.
Il Modello Teorico al quale faccio riferimento è quello della Psicoterapia Cognitiva Neuropsicologica (PCN), e si basa su due principali assunti:
Giulia Lanaro Psicologa
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